Il processo e gli strumenti del coaching

Il processo e gli strumenti del coaching

Il processo di coaching punta sempre a traghettare il coachee verso lo stato desiderato, agevolando il cambiamento rispetto allo stato presente.

I processi e gli strumenti del coaching possono essere concettualmente differenti; si passa da un alto livello di definizione come il G.R.O.W., a un modello più semplice in tre fasi come il processo di cambiamento di Lewin. Nel tempo sono state effettuate molte varianti, ma fondamentalmente il processo di coaching punta sempre a traghettare il coachee verso lo stato desiderato, facilitando il cambiamento rispetto allo stato presente.

Nel processo di coaching, la sessione di apertura ha come scopo la definizione sia dell’obiettivo macro di tutto il percorso, sia dell’obiettivo della sessione stessa. Viceversa la sessione di chiusura servirà al consolidamento e riepilogo del percorso effettuato e create le condizioni affinché il coachee possa nel futuro essere coach di se stesso.

Il mezzo con cui si realizza il processo di coaching può essere in presenza, telefonico o anche con altri supporti multimediali come la videocall, ognuno con le proprie peculiarità, ma che comunque garantiscono l’efficacia del processo.

Strumenti fondamentali utilizzati nel coaching

Gli strumenti imprescindibili per la professione del coach, quindi la “cassetta degli attrezzi” che, indipendentemente dal processo da attuare, devono essere presenti e padroneggiati con maestria sono:

  • l’ascolto attivo;
  • le tecniche linguistiche specifiche per il coach;
  • il feedback.

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L’ascolto attivo nel Coaching

L’ascolto attivo è, al di là degli strumenti specifici del coaching, una tecnica che, all’interno di una qualsiasi relazione (anche familiare, oltre che professionale), permette di comprendere con chiarezza il messaggio di un interlocutore e al tempo stesso fargli percepire l’attenzione di chi lo ascolta.

Harry Weger ci dice che l’ascolto attivo è costituito da 3 elementi fondamentali:

  • il coinvolgimento non verbale dell’ascoltatore, che è un segnale di attenzione focalizzata su chi parla;
  • la restituzione del messaggio da parte dell’ascoltatore, utilizzando le parole di chi parla;
  • il supporto dell’ascoltatore attraverso domande utili a elaborare ulteriori aspetti del messaggio di chi parla.

Sono davvero innumerevoli gli studi che hanno comunque riportato l’uso dell’ascolto attivo in vari ambiti come la realizzazione delle interviste (Louw, Watsson Todd, & Jimakorn, 2011) e delle negoziazioni (Fischer-Lokou, Lamy, Guéguen, & Dubarry, 2016), la vendita (Comer & Drollinger, 1999), le attività manageriali (Knippen & Green, 1994) e lo sviluppo di business (Rane, 2011; Rogers & Farson, 1987).

Per un coach l’ascolto attivo rappresenta un valido ed efficace strumento, sia di gestione della relazione che di sviluppo della consapevolezza e richiede perciò un elevato grado di padronanza per un suo corretto utilizzo.

Durante una sessione di coaching, il coach focalizza tutta la sua attenzione sull’espressione del coachee, con questo intendiamo un’osservazione globale, che comprende la parte verbale e quella non verbale.

L’ascolto attivo è perciò essenziale per la decodifica di quanto viene espresso a parole in forma implicita, come nel caso delle convinzioni e delle metafore, a cui deve seguire un’opportuna formulazione delle domande per approfondire il livello di analisi, fino a far emergere il significato nascosto di cui la persona ha meno consapevolezza.

Le tecniche Linguistiche nel coaching

Il coaching affonda le sue radici nell’epoca greca e in particolare nella maieutica socratica, da cui prende implicita ispirazione. Pertanto è naturale che il linguaggio parlato rappresenti uno strumento di lavoro fondamentale per il Coach. Con ciò non intendiamo banalizzare la questione, considerando che la maggioranza delle interazioni umane utilizzano il linguaggio verbale. Piuttosto ci interessa sottolineare come, al contrario, non tutte le interazioni linguistiche possano appartenere alla metodologia del coaching e come, anzi, alcune possano essere controproducenti, se non addirittura deleterie, per il raggiungimento dell’obiettivo. In altre parole: non si fa certo coaching soltanto favorendo una buona conversazione con il proprio interlocutore, perché sono ben più complessi gli aspetti che bisogna curare per utilizzare al meglio ciascuna sessione.

Il Coaching e le domande aperte

Tra gli strumenti del coaching, un punto fondamentale riguarda l’assenza (avete letto bene!) di consigli e l’utilizzo minimo di indicazioni o informazioni (idem), quindi un uso ridottissimo di frasi affermative. Ben più importanti e favorite sono invece le domande aperte, che supportano un processo di esplorazione alla base dell’insight e della consapevolezza del coachee.

Queste ultime infatti costituiscono, insieme al feedback, la maggior parte delle espressioni utilizzate nella conversazione di coaching. La capacità di formulare domande aperte, distinguerne la funzione rispetto a quelle chiuse e individuare eventuali presupposti impliciti in esse presenti, sono delle competenze di base richieste a un coach.

Il processo di coaching punta sempre a traghettare il coachee verso lo stato desiderato, agevolando il cambiamento rispetto allo stato presente.

Riconoscere i presupposti impliciti

Il riconoscere i presupposti impliciti è importante anche nel linguaggio in generale che diventa, sia strumento di lavoro che esempio di pratica comunicativa per il coachee.

Questo aspetto per il coach comporta il saper orientare il focus delle domande, mentre per il coachee può diventare un approccio comunicativo da adottare in seguito nel proprio modo di relazionarsi, sia professionale sia personale.

A differenza infatti delle domande chiuse, che pongono una scelta alternativa obbligata, quelle aperte promuovono invece la ricerca di nuove informazioni e opzioni di soluzione!

Non a caso il linguaggio è ormai considerato uno strumento potente per la creazione (quindi può esserlo anche per la riduzione o distruzione…) di fiducia. Per questo risulta un elemento base della relazione di coaching, utilizzabile anche a livello metaforico, con il vantaggio in questo caso di veicolare più significati e informazioni.

Il Clean Language nel Coaching

Il clean language nasce dal lavoro dello psicoterapeuta David Grove: per far superare i traumi ai propri pazienti, invece di fornire lui delle rappresentazioni dei contenuti, li esortava a dare loro la descrizione di ciò che provavano tramite metafore. Nel coaching tale metodo risulta utile per offrire sia una cornice per le domande da porre, sia per uno stile comunicativo da adottare, utilizzando poche parole semplici mutuate direttamente da quanto riportato dal cliente.

Questo metodo ben si coniuga con la finalità del coaching di evitare qualunque diretta influenza sul processo di auto-esplorazione del coachee e offre l’opportunità di lavorare con contenuti simbolici, come quelli portati da una metafora, permettendo l’attivazione delle risorse potenziali e la crescita di maggiore consapevolezza.

Ecco quindi un’importante simmetria fra gli strumenti base del coaching:

  • tanto è importante un ascolto pulito, privo di giudizio e preconcetti, per comprendere fino in fondo quanto viene detto dal coachee in sessione;
  • altrettanto fondamentale è usare un linguaggio pulito, semplice e privo di significati nascosti al coachee, per formulare quelle domande che gli permettano di trovare le risorse necessarie a raggiungere il suo obiettivo.

Coaching e Feedback

Il feedback è in assoluto uno degli strumenti del coaching più importanti nell’influenzare l’apprendimento, come mostrato da più studi neuroscientifici. Può avere sia esiti positivi sia negativi sulla performance finale di un coachee a seconda di come viene veicolato.

Infatti, più che un’unica forma di intervento, il feedback va considerato come un ventaglio di approcci per fornire informazioni di supporto, dipendenti dal contesto e dal tipo di informazioni trattate.

Il feedback tra le persone

Dai lavori di Wiener sulla scienza della comunicazione e del controllo, alla base della nascita della cibernetica, il concetto di feedback è stato esteso agli esseri umani e alla dimensione comunicativa e sociale. Come spesso accade con paradigmi scientifici e tecnologie emergenti, tali studi portarono all’impiego delle risorse umane usate come “controllo per dare feedback alle macchine”, sollevando le critiche dello stesso Wiener e portando a riflettere oltre all’aspetto del controllo della complessità, anche alla sua sostenibilità e ai vincoli morali necessari per un’efficace applicazione del feedback.

In ambiti educativi, come quello scolastico ad esempio, sono stati riscontrati indicatori dell’efficacia dell’uso del feedback nel contesto didattico e della sua validità nel supporto dell’apprendimento nella scuola.

Molti fattori influenzano l’efficacia del feedback, come le convinzioni e gli elementi affettivi, la fonte da cui proviene, la sua autorevolezza e la sua applicabilità in concreto. Gli elementi che modulano la risposta al feedback sono altrettanto numerosi come l’interazione fra i tipi di feedback e le convinzioni del soggetto che li riceve, il numero di fonti di informazioni da integrare per permettere la riduzione della distanza fra stato presente e desiderato; la gravosità del compito e l’utilizzo di incentivi; la forma quantitativa, qualitativa e accessibile con cui il feedback è fornito.

Benché il feedback sia legato all’esito della prestazione, la motivazione sembra essere indipendente da esso e la sua efficacia diminuisce se il livello di performance oggetto dell’intervento è elevato o la forma con cui viene fornito è troppo complessa. In altri termini più si è esperti e più l’impatto del feedback è basso; meno è semplice e diretto il feedback meno efficace risulta. Si tratta di un aspetto ben conosciuto dai coach professionisti e per tale ragione una parte specifica della loro formazione punta a fornire feedback su più livelli, utilizzando il linguaggio verbale e non verbale in modo pulito e congruente.

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